Postfazione: P.O.P. Poetry – Illusion my religion, di Valentina Gaglione e Fabio D’Angelo (ed. Cicorivolta 2014)

Il riflesso e l’incontro – Ed esce l’intimo Sentire soffiando via dolore e spire

postfazione di Martina Campi

Che si aprano le tinte

Miei signori

Non siete stanchi di elucubrare

Sempre così soli?

 

 

 

 

NOI VIVIAMO L’ILLUSIONE PERFETTA

 

Una domenica di gennaio, esplosa in un sole luminoso e freddo, illusione primaverile per lo sguardo bramoso di luce, cammino in mezzo a una via Rizzoli senza traffico. Tra suonatori, mimi, predicatori e giocolieri, c’è un ragazzo che gira di qua e di là, su e giù per la via un po’ a zig zag, con un cartello a scritte grandi e colorate appeso al collo: TU SEI PERFETTO.

 

Avrei voluto fermarlo, fotografarlo, dirgli grazie, dirgli sei un genio e tante altre cose che lì per lì magari sembrano importanti e invece poi lo sai già che le scorderai.

E appunto, cosa avrei fatto? Una foto in posa ricordo da collezionare negli accumulatoi? Domande, complimenti, solo per via del sole? Anche lui era perfetto. Il suo cartello invece non era perfetto. Magari era un po’ storto da un lato, o aveva sbavature di colore nelle parole. Il gesto era perfetto. L’atto era perfetto. Era un atto poetico? Era un atto artistico? Era un atto umanitario? Era un folle che girava per strada in una bella giornata, come tanti?

 

NOI PREGHIAMO L’ILLUSIONE PERFETTA

NOI VIVIAMO L’ILLUSIONE PERFETTA

 

Era una domenica in via Rizzoli ed ecco l’Arte di Valentina e Fabio manifestarmisi davanti in carne e ossa.

 

“Se leggi,

qualcuno ha scritto per te

Se ascolti,

qualcuno ha suonato per te

Se osservi,

qualcuno ha modellato per te”

 

Sale una gratitudine immensa al solo scorrere queste parole, che stanno proprio lì, nella metà plastica della pagina dove l’occhio cade e ne viene come addolcito. Entra per la pupilla un soffio quasi di nostalgia, come la scheggia ghiacciata dello specchio di Kai, ne La Regina delle Nevi, però al contrario: questa è un scintilla di commozione che apre, senza farsi accorgere, uno di quei canali del sentire interiori e viavai (o anche vivai) dell’anima, citati nel libro.

 

I canali che ci scorrono nel corpo senza nominarsi (mentre spesso è nominato il corpo) attraverso le pagine del libro, in armonioso accordo tra parola e immagine, come ad attraversare, come a traverso i colori delle immagini, non possono che richiamare i canali energetici del mondo orientale, che scorrono all’interno  del corpo fisico come principali componenti anatomici di quello che viene chiamato comunemente “corpo sottile” (da non confondere con il più conosciuto “corpo trasmigrante”, anch’esso chiamato “corpo sottile”). Essi sono i canali attraverso cui, come soffi, scorre l’energia vitale, mentre l‘energia divina è concentrata nei Chakra, i centri energetici interni, che come delle valvole vorticanti regolano il flusso di energia del nostro sistema energetico. Sono punti focali della forza vitale, per cui è chiaro che se anche uno solo di essi fosse bloccato, l’energia non fluirebbe liberamente, causando disagi di diverso tipo. I Chakra principali sono sette, a ognuno dei quali corrisponde un punto preciso del corpo e, soprattutto, per quanto ci riguarda in questo contesto, un colore.

 

Ed è come se questo scambio e corrispondenza tra parola e immagine, ma soprattutto colore,  attraversasse ogni Chakra, a riaprire il varco bloccato, ripristinare l’equilibrio nell’energia “affaticata”, “stremata”, “stordita” del corpo, arido come la terra.

 

Allo stesso tempo la terra ritorna fertile madre di semi antichi, mossa dai venti, carezzata dalle piogge.

 

LEGGERE, ASCOLTARE, OSSERVARE (come percorso tracciato dal e nel libro, indicazioni e segnali che danno il tempo, muovono il ritmo).

 

È tornare esseri vitali al proprio corpo, è lasciarsi accendere le proprie scintille, è sentirsi parte armoniosa nella vibrazione che dalle profondità della terra si congiunge con il galleggiare leggero del cosmo.

 

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LEGGERE

 

Allora eccolo lì, il primo dei canali, quasi a tradimento, dall’occhio agisce che, se già non era accaduto prima standocene sulla difensiva a braccia conserte, ora è aperto e sente: vede, ascolta, osserva.

 

Pagina dopo pagina, non ci sarà più scampo all’illusione perfetta.

 

Ci si lascerà portare dal bianco sotto le parole, dalle parole e le loro forme, dalle immagini, dagli spazi e dai colori, la somma che fa dolcezza, l’accoglienza che ci mancava e non ce n’eravamo accorti, era il nostro quotidiano, era così e basta.  Sinonimo di fiducia, che permette il viaggio, anche quando sconquassa l’anima, e il corpo, intorpidito dalla norma, dimenticato per le strade a senso unico che diventano le sole strade apparentemente esistenti, gabbia che alimenta la vera illusione: quella dell’aridità nella quale ci si sente incarcerati in un mondo senza via di scampo. Si sta sulla difensiva. Ma senza saperlo. Non ci si rende davvero conto, continuando la strada dei nostri pensieri ostinati e confusi dalla stanchezza, dal senso di oppressione dell’impotenza, stringendoci “in petto sulla difensiva”, che è questa la vera illusione. Quella che, giorno dopo giorno, nel suo silenzioso agire, ci ha trasformato o chiuso qualcosa come il cuore o l’anima, o la capacità di sentire, in pietra.  (Sussurra nella testa, da qualche altra parte oltre l’occhio che legge, sussurrano le parole di un altro libro un’altra poesia).

 

Svegliandoci soli

Nell’ora in cui tremiamo

Di tenerezza

Le labbra che vorrebbero baciare

Innalzano preghiere a quella pietra infranta*.

 

E i nostri corpi, ben lontani dalla bellezza Michelangiolesca, sono stremati, affaticati, storditi dalla norma.

 

 

Come non andare e tornare con la mente a Gli uomini vuoti di T.S. Eliot, con tremore, con il brivido del dubbio, stare sulla difensiva per non volersi riconoscere, (Oddio! Siamo noi gli uomini impagliati) perché l’illusione è sempre stata perfetta, l’uomo moderno, senza identità, senza personalità: figure senza forma, ombra senza colore, forza paralizzata, gesto privo di moto, si svegliano soli, nella mancanza di una comunicazione cercano l’empatia, la condivisione (I punti cardinali//gemono//un uomo senza centro):

 

Siamo gli uomini vuoti

Siamo gli uomini impagliati

Che appoggiano l’un l’altro

La testa piena di paglia. Ahimè!

Le nostre voci secche, quando noi

Insieme mormoriamo

Sono quiete e senza senso

Come vento nell’erba rinsecchita

O come zampe di topo sopra vetri infranti

Nella nostra arida cantina

Figura senza forma, ombra senza colore,

Forza paralizzata, gesto privo di moto;

Coloro che han traghettato

Con occhi diritti, all’altro regno della morte

Ci ricordano – se pure lo fanno – non come anime

Perdute e violente, ma solo

Come gli uomini vuoti

Gli uomini impagliati..

 

 

 

(NOI PREGHIAMO

L’ILLUSIONE PERFETTA)

 

 

II

[…]

Non lasciate che sia più vicino

Nel regno di sogno della morte

Lasciate anche che porti

Travestimenti così deliberati

Pelliccia di topo, pelliccia di cornacchia, doghe incrociate

In un campo

Comportandomi come si comporta il vento

Non più vicino –

[…]

 

*Gli uomini vuoti di T.S. Eliot

Ma ecco la cura, ecco intervenire il manifesto che apre il libro, senza possibilità di malintesi: si gioca a carte scoperte, con l’intento dolce e infiammato dei colori e delle immagini.

 

Dei caratteri e degli spazi.

 

Delle parole che, Se leggi, // qualcuno ha scritto per te: l’Arte ha

 

 rami-braccia che accolgono,

 

forza appassionata che accarezza i corpi e li fa sentire vivi, perché è una carezza di colori, suoni estatici, parole, che provengono dalle profondità più vibranti di semi piantati nella terra da secoli. (Non illusione, ma sostanza che cresce e si trasforma e si lascia trasformare, modellare: gli elementi della terra, nelle mani dell’uomo, si dispongono elementi dell’arte).

 

Perché opporsi a questa carezza, a questa forza? Perché dunque, negarsi la fiducia? Perché restare nell’illusione gabbia dorata del pensiero unico, sulla difensiva, come dura pietra inscalfibile? Perché rimanere uomini di paglia, paralizzati dall’inerzia di una volontà che sfugge, incapace di affrontare il salto?

 

La risposta era già pronta prima di ogni domanda: questa carezza è una forza che scompiglia.

 

Si preferisce stare nell’illusione, dimenticando quella grande      e         a fondo pagina,

(e a fondo cuore, forse)

 

e         ricompone.

In quella    e , tra lo scompiglio e la ricomposizione, stanno nell’ombra tutte le paure, all’abbandono verso gli attimi di tensione scordando, ancora una volta, che sono proprio quei momenti i momenti della genesi, della trasformazione, del riavvicinamento al proprio Sé e all’altro da sé.

 

NOI VIVIAMO L’ILLUSIONE PERFETTA; ecco come chiamarsi folli nell’arte, quella che invece è la vera cura.

 

DIRE NO AL TORMENTO

 

Per esistere, ed essere, vita con luci e ombre nei viavai dell’anima, in contatto e in alleanza, con le vibrazioni dei suoni più ancestrali, con i segni primordiali, progenitori di ogni vivente, i semi antichi di quelle piante millenarie che ora siamo diventati, con le radici, la linfa, le foglie, la corteccia, i rami, tutto ciò che ci serve, per guarire creando, o creare guarendo, respirare vento e parole, leggere quello che qualcuno ha scritto per noi, e lo ha scritto ovunque, persino nelle venature del legno di un locale aperto fino a tarda notte. Leggere le venature del legno che qualcuno ha scritto per noi.

 

Lo rendono chiaro le immagini a tinte forti di Fabio D’Angelo, come fossero esse stesse l’eredità dei semi più antichi, coltivati qui con la cura sensibile e la passione infiammata che va oltre le possibilità limitate del tempo, con la responsabilità che ne deriva. Custode di quei semi che generano il colore.

 

Le immagini sono forse la trasfigurazione – raffigurazione impossibile, di quei canali sensitivi aperti che, in quanto aperti, rendono liberi dalla norma comune ma, in un certo senso, anche INDIFESI.

 

Compiere il passo fuori dalla così detta norma è quel salto a testa in giù che fa correre il rischio di perdere il sonno.

 

Il volo, la vertigine, il cuore che accelera e blocca il respiro per quell’istante che sembra eterno e quindi dimensione senza fine: ci si sente soffocare, ci si sente perduti nel per sempre, sono quella libertà di esprimersi veramente nello spazio di una quotidianità fatta di doveri e di meraviglia. Ritornare bambini con la vertigine del gioco nel corpo e la concessione di non dover sapere per forza spiegare nulla, tanto che ogni domanda perde di significato, cade come una foglia in autunno e conta solo la fiducia nel volo.

 

Tornare bambini al gioco è sapere che si può riatterrare, accolti in un abbraccio vivo. In questo caso l’abbraccio è quello della terra, la nostra madre più antica, la generatrice dei semi da cui prendono vita i colori, nascono i suoni, provengono le vibrazioni. Tutto ciò di cui anche noi siamo fatti. Atterrare in quest’abbraccio ricongiunge la mente con il cuore, e ogni membra a ricomporre il corpo.

 

Ascolto e osservazione, che portano all’intuizione creativa (che è gioia e cura, scompiglio e ricomposizione, carezza) sono tornati a scorrere vita nei canali interiori e infiniti del sentire, attraverso il volo fiducioso nella creazione, Arte che cura e ha i suoi metodi. Sentire non è cosa da poco.

 

 

È un’ espansione dello sguardo e dell’anima che ha un prezzo. Nessuno infatti ha mai detto che la libertà sia gratis. L’accettazione del rischio (di cadere) è una scelta di libertà che non prevede ritorno, comporta responsabilità non più aggirabili. Rischiare = Cambiare.

 

Il paracadute di Pendente può essere emblema di un rischio addirittura doppio.

 

Se tornare su è un rinnovarsi ora anche in un rapporto, così il cadere a picco è riposto anche nella fiducia all’altro.  Se mi tenevi, la voracità di vite è legata all’intento: non perdere l’ espansione è dare vita all’avventura nell’empatia, nell’aver cura o a cuore l’altro e il suo destino, non cadere nella trappola sempre presente del controllo e della proiezione: potrei perdere i pensieri tra sporchi giochi tiranni. Ancora si esce dal pericoloso dualismo (non esiste vittima che non sia altrove carnefice), nell’unico modo possibile: uscire dal gioco dei pensieri e non negarsi la responsabilità nell’essere liberi di scegliere per sé ciò che si desidera (non perdere l’ espansione): scelgo le tue vocali e tutti quanti i suoni. Uscendo dai pensieri, trappola per gli sporchi giochi tiranni. Come dire: che tu sia per me compagno, in questo piccolo volo che mi si apre in petto ma anche se non lo fossi, io riconosco che da te di-pendevo e scelgo di te ciò che mi puoi dare, ciò che mi permette di essere me. E io scelgo di me ciò che mi posso dare: esco dal gioco della mente e non sarò né vittima, né carnefice, sarò piccolo volo che mi si apre in petto, che sull’oceano plana.

 

Uscire dal dualismo mentale riappacificandosi con l’ombra, sentirsi Uno, sentirsi essenza pulsante, scintilla creativa, sentire attraverso l’energia del cosmo di essere energia del cosmo e partecipe del ciclo vitale, partecipe dell’ espansione, richiede grande coraggio:

 

d’azione equilibrio al buio due parti di me si scontrano e riappacificano

 

e di fiducia: nella riappacificazione, nella forza vitale che regola le nostre piccole vite e l’universo insieme, contiene le paure, il buio, le stelle a fiori, l’unione e la divisione, la scelta di non abbandonarsi all’ombra e seguire l’ILLUSIONE PERFETTA, viaggio che porta all’unione, a stare sospesi nell’energia del cosmo. È un liberarsi dalle maschere che ci proteggono e nascondono. Il rischio di sentirsi nudi e INDIFESI di fronte al mondo, è un liberarsi librarsi sospesi nel cosmo, che infiamma la forza inestinguibile del nostro vero essere.

 

ASCOLTARE

 

Perché perdi tempo?

 

Spesso ho l’impressione di non essere la sola che sente un certo disagio comunicativo, davanti ad un’immagine. Come se guardare, vedere e osservare fossero la stessa cosa. Come se ad ognuna delle tre azioni dovesse corrispondere un canale preferenziale semi automatico verso la parola, verso il senso. Descrivi cosa ti comunica l’immagine. Questo il compito assegnato dalla maestra, la domanda in alto invece, che probabilmente avete sentito rivolta a voi, e in questo caso naturalmente siete liberissimi di chiedervelo e di rispondere o non rispondere, o di pensare che non state affatto perdendo tempo, anzi, la scritta sulla mia pagina bianca, alla fine dell’ora. È stato il mio incubo per anni. La convinzione di dover osservare e automaticamente dire, o saper dire. Solamente a distanza di mezza vita ho intuito che forse era tutto sbagliato. Almeno per me. Forse quel giorno io stavo ascoltando l’immagine del libro. Forse non avevo capito che quell’ascoltare in silenzio era il mio sentire la voce delle figure, dei colori, degli spazi, delle forme. E quindi non avevo neanche capito che senso avesse la domanda della maestra. Dovevamo descrivere quello che c’era dentro il disegno? Inventarci una storia ispirata all’immagine, o peggio, spiegare? Non mi era sembrato di perdere tempo, avevo tenuto gli occhi fissi sul libro tutta l’ora, ma, lì per lì, non dissi niente. Mi rimase il disagio però, di non poter capire l’arte figurativa. Poi imparai ad ascoltare. E ad ascoltarmi. Eccolo lì, questo linguaggio misterioso e seducente si era conciliato con me. Mi sentivo quasi un’abusiva, ancora mi domandavo se fosse corretto, o nella norma attraversarsi così. Se non fosse ancora  un altro perdere tempo. Perciò perdonatemi, io le immagini di Fabio D’Angelo le ho ascoltate e ho ascoltato i colori accesi, riaprire i varchi dell’energia. E ho ascoltato fino a sentire. Non come si ascolta una musica, non come si sente un suono. Ho ascoltato il silenzio immobile della pagina impressa fino a sentire un rapporto che ci congiungeva.

 

La relazione tra immagini e parole invece spesso mi ha sorpreso e quasi disorientata, e soprattutto ha reso il vedere e l’ascoltare un’amplificazione del sentire a tratti commovente, forte e inimmaginabile.

 

Una notte d’insonnia mi è capitato di soffermarmi su quella trottola enorme, sotto un cielo nuvoloso e cupo che poi in alto si schiarisce un poco, e sopra quella strada che sarebbe altrimenti deserta, se non fosse per l’uomo di spalle, collegato alla trottola, che precede sul cammino.  Anche verso quel punto in cui la strada sembra curvare, c’è un accenno di luce. Ma è la trottola che colpisce per prima la vista, anche se noi stiamo ascoltando il movimento delle nuvole e se magari piove. È come se fosse lì a farti delle domande (Perché perdi tempo?). Così in primo piano e grossa, quasi sproporzionata rispetto tutto il resto. Quasi sollevata dall’asfalto, come se godesse di un movimento tutto suo, indipendente, nonostante il filo che la collega  all’uomo che cammina e che riporta dal corpo all’oggetto e viceversa, e dall’uomo al bambino, e viceversa? Ma poi, è collegata, o trainata dall’uomo (o viceversa?)? Davvero si libra da sola nonostante tutto quel nero? Tutta quella densità nera di corda che la avvolge, che sembra un tutt’uno, quasi una voragine entro cui si può cadere e poi perdere, una guaina invece che una corda, o una corda fusa, colata incollata, che poi magicamente si sfila. Come se crescendo il gioco si fosse in qualche modo guastato e incutesse un timore oscuro, che sta proprio lì, proprio dietro il riso e la meraviglia del vedere l’oggetto sfilarsi e rotolare da solo.

 

Una trottola gigante potrebbe essere il sogno di ogni bambino, così come un luogo in cui poter giocare senza il timore di rompere qualcosa, senza limiti d’orario, né di spazio né di tempo.

 

E poi ditemi: chi non ha mai giocato sotto la pioggia come se fosse l’avventura estasiante dell’esperienza proibita eccezionale e, allo stesso tempo, la cosa più normale del mondo, come bagnarsi un po’? Una strada senza auto è altresì il luogo perfetto: fondale d’asfalto per far girare bene bene la trottola, una strada vera tutta per sé, e si può tornare a casa in ogni momento: il perfetto fuori norma!

 

Eppure, qualcosa ora sembra guasto, andato storto, o assente, come la vegetazione quasi desertica. Forse ciò che stiamo ascoltando, è un senso di solitudine? Non poter condividere la propria ILLUSIONE PERFETTA crea questi contrasti oscuri? Fonde gli oggetti più cari a un ricordo che deforma? Ma poi è davvero l‘uomo che porta la trottola, o è la trottola che invece lo insegue? Peso da trascinare con sé o ricordo di spensieratezza che cresce e si oscura alle spalle del tempo? È compagna, questa corda ondulante, o invece prigionia di un passato che cresce con lui e non obbedisce all’ordine del tempo? La trottola è fatta per muoversi, e così segue la sua natura anche ora: crea un vortice, nero, stavolta, visibile, non immaginato coi colori dell’arcobaleno e la forma elegante del fiore di loto.

 

Ecco che tornano gli Uomini vuoti di Eliot:

 

 

Qui noi giriamo attorno al fico d’India

Fico d’India fico d’India

Qui noi giriamo attorno al fico d’India

Alle cinque del mattino.

 

 

Fra l’idea

E la realtà

Fra il movimento

E l’atto

Cade l’Ombra.

 

 

Ma qui tutto può cambiare in ogni istante. Girando e girando, il vortice crea il vento, smuove la pioggia. Forse riporta il chiaro sottile oltre le nubi… Cos’è ora il passatempo dell’adulto solitario? Il desiderio d’incontrare qualcuno con cui condividere gioco e cammino, facce del destino in arrivo oltre la curva? Il non sapere l’oltre della curva sulla strada? Il tentare risposte all’assoluto, nel mutare del cielo?

 

La sola bellezza nell’odore della pioggia è la grande trottola nel dipanarsi, nella scia dei passi, nel ricongiungersi dell’uomo col bambino. Nel vento che sarà amico, e porterà sorprese, ci soffierà in alto come nuvole verso il cielo, dove forse incontreremo finalmente quell’atteso qualcuno con cui lasciarsi portare, sussurrerà le sue canzoni di sempre, quelle che conoscono solo i bambini e che poi crescendo dimenticano, ma non tutti. Qualcuno le porterà nel cuore come una preghiera: PREGHIAMO PER L’ILLUSIONE PERFETTA. Il non arrivo è il non fermarsi, ascoltarei venti che suonano l’indomabile frastuono della vita.

 

 

 

OSSERVARE

Ma se noi ascoltiamo le vibrazioni del vento e con lentezza paziente seguiamo la strada, chi sentirà noi?

 

Chi ci sentirà arrivare? Chi ci verrà incontro? Non domani o ieri. Oggi, chi ci verrà incontro?

 

Se le condizioni di vita sono la gabbia che isola, spegne l’innocenza e accende la rabbia di un’impotenza che fa paura, che porta la solitudine del sentirsi divisi, frantumati. Chi? (Sente la bellezza?)

 

Si cerca un segno

Aspettare qualcuno

Un ritorno

 

Il punto certo in cui si torna a riposare.

 

Sentire è ricongiungersi. Ma è anche sentire i vuoti che ci abitano nella frantumazione, e la paura di cui si nutrono che si mangia l’immaginazione, ruba la fiducia, irrigidisce il corpo in difesa. Risuonano stridenti nell’ombra, quell’altra parte di noi che ci fa umani ma che non vorremmo mai incontrare neanche per strada, in pieno giorno. Questo sentire inscindibile è il salto, è la commozione, è il seme antico del colore, è l’origine della nostra vibrazione che si fa suono in comunione con il suono di ogni altra persona che continua a vibrare e non torna sulla difensiva, non cede al colore, neanche al nero, perché sa che il nero è solo uno tra i tanti colori del mondo, e anche lui ha infinite sfumature, e può creare bellezza. Non rinuncia a tutti i colori per causa del nero, non nasconde i frantumi con la scopa nuova sotto il tappeto parlando del tempo o di cosa ha comprato domenica al centro commerciale. Non –

 

“Amico pallido

Non ti stupire

Di ciò. È che

da sola non so

patire

la morte del sentire”.

 

ecco,ora mi viene in mente la bellissima canzone di Elliott Smith,  Pitseleh, quando dice:

 

 


 

 

I could never be the puzzle pieces
They say that God makes problems

 

just to see what you can stand
Before you do as the devil pleases
And give up the thing you love

 

But no one deserves it

 

che, tradotto:

 

 

Io non potrei mai essere il pezzo del puzzle

Dicono che Dio crei i problemi

Proprio per vedere quello che puoi sostenere

Prima di accondiscendere il male

E rinunciare a ciò che ami

 

 

Ma nessuno si merita questo

 


 

Non rinuncia a ciò che ama.

 

 

Riconoscersi è accettare l’ombra per tornare interi, raccogliere i frammenti e ricomporre, scoprirsi aquile e colombe, ciascuno nella propria bellezza. Somigliandosi nei tracciati.

 

È sempre con noi stessi lo scontro più duro.

 

Ci somigliamo nei tracciati e a volte c’incontriamo, o incontriamo impronte d’altri, passi d’altri sulla stessa via che, calpestata, segnata, tracciata, non smette neanche lei il respiro della vibrazione.

 

Tornare al respiro è tornare al movimento carezzevole della terra. Ondulante, come culla, o nido. Rotatorio, come gioco, come trottola.

 

Ricongiungersi al corpo è uscire dalla mente labirintica per lasciare spazio all’intuizione, alla creazione, riaprendo i canali interiori e riappropriandosi della propria energia, predisporsi al sentire.

 

Non importa più essere creduti, cambiar pelle per dono d’abbandono, trasudato al suolo senza aver dato fuoco a nulla se non carne al silenzio e lacrime in terra.

 

Osserva. La forza di un sorriso può da sola annientare convinzioni secolari.

 

La responsabilità e la scelta stanno nel fare. Ascoltare. Lasciarsi parlare. Ballare. Non serve il permesso per il primigenio canto.

 

Lo sfiorarsi, non più agonia, schiudersi, offrirsi al tutto, nutrirsi di musica, colori, parole. Luce. Incontrarsi d’occhi. Dirsi. Abbracciare il passato che brucia le mani, lasciarlo rotolare al contrario per riavvolgersi nel filo della trottola, lasciarlo andare così, nell’amore puro del bambino che rinuncia ora al suo dolore.

 

 

Ecco l’ispirazione,

la possibilità di fidarsi

dell’impossibile.

 

 

 

Antidoti alla decadenza, alle finzioni (L’empatia non si compra):

 

 

               come angeli che si riprendono l’azzurro

               come i sogni dei bambini

               come ascoltare le curve

               come i fiori che sorridono

               come lo splendore della notte dall’alto di un tetto e come follia d’aria leggera e come musica

               come i sogni dei grandi

               come portare in cuore candore, dall’infanzia per proteggerlo

come chiedere instancabilmente rispetto per il candore indifeso

come passato che si lascia andare, o riavvolgere nell’amore

come aspettare, come ascoltare, come guardarsi, come sfiorarsi

come astri su cui precipitarsi

 

eterne distanze

               con cui misurarsi

               e ricadute da cui ripartire.

 

 

TU SEI SPECIALE

Ricordi?

 

E non sei mai solo perché:

 

“Se leggi,

qualcuno ha scritto per te

Se ascolti,

qualcuno ha suonato per te

Se osservi,

qualcuno ha modellato per te”

 

Dal punto di partenza al punto di arrivo: i percorsi.

Le voci.

Come ondulante sedersi e guardare.

 

Planare è cambiare, spingersi oltre l’azzurro terreno.

 

Se il fuoco delle mani

brucerà sarà per illuminare

e mai più per fare male.

 

 

 

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