Dalle Voci con cui andare a capo (qualcosa di mio su Quaderno Millimetrato – Dorinda Di Prossimo)

Quaderno Millimetrato – Dorinda Di Prossimo

Incerti Editori 2012

 (Un sintesi di questi pensieri si può trovare sul numero 58 della rivista Le Voci della Lunahttp://levocidellaluna.wordpress.com/ – http://www.levocidellaluna.it/ )

Dalle Voci con cui andare a capo

Tenersi in un spazio geometrico è dislocarsi a rifugio, delimitare millimetri confini di sicurezza entro i quali si possono alterare gli istanti, mentre le misure restano a conforto le stesse, nel ricucire appena orli sulle giacche, ricomporre memorie in spazi senza tempo che vanno e vengono in voci, inventari di monologhi custoditi a dialogo prima che si richiuda il pavimento, pause d’azzurro, suoni, silenzi oggetti, femminile di quotidiano ricostruire, avvolgere immagini di una ritmica materialità, come l’intimità densa dell’aria, nell’andare verso “i passi trasparenti” delle stagioni e tornare nel coagulato-desiderato naturale susseguirsi del giorno e della notte.

Millimetrate parole, saldate al linguaggio solido e semplice, immaginifico e quasi narrativo, pluristratificato,

condensato e compatto, che è quel movimento preciso, richiesto dallo spazio del quaderno che lo contiene e dello sguardo che lo accoglie.

Del fare anima – “Un’architettura d’echi”: mi è nato quest’accostamento tra l’opera di Jung e un verso di Dorinda di Prossimo che, così uniti, è come se mi aprissero direttamente le pagine del “testo a fronte, quelle in lingua originale”. Così definiscono gli editori le pagine a sinistra del libro, che sono bianche. E mi riportassero là dove ciascuno, a occhio aperto e cuore verso, può farsi portare, (vorrei specificare l’uso di questi termini senza l’ombra di sentimentalisimi, così come senza ombra di sentimentalisimi è ogni pagina di questo libro, bianca o scritta). A me per esempio arriva ancora questo Fare anima, che per Jung è “prendere gli oggetti, le persone, gli eventi e riportarli alla loro natura di ombre, di immagini, cioè alla loro natura psichica e animica, liberarli dal giogo del tempo, risvegliarli dall’ipnotismo dell’Io”. C’è questo, in Quaderno millimetrato? Non credo ad una risposta univoca: questo è il “mio” Quaderno millimetrato, tutto sottolineato, scritto, viaggiatore in treni e zaini, presente pure nella vita onirica di un sogno. Di certo ci sono gli oggetti, gli eventi e le persone, ci sono ombre e immagini e c’è il tempo. Ma soprattutto c’è  qualcosa di ineluttabilmente silenzioso in uno spazio che tuttavia comunica, una memoria che apre il pavimento, un pavimento che sa da sé quando richiudersi, un passato presente che non perde mai collocazione, nonostante l’andare e venire senza farsi beffe del tempo, che passa e raccoglie, talvolta interrompe, corrode, allontana, porta via, così come lascia (i segni sul corpo). “C’è la dispensa sguarnita. Che esiste” e tutto un percorso per ritrovare e far ricorso al ricosrtruire.

C’è qualcosa di profondamente intimo e misterioso, per cui le cose, quelle antiche e solo ricordate, quelle ancora presenti e quelle più quotidiane, custodiscono segreti e affezioni, una delicatezza inviolabile, un amore vivo e gesti inusuali e orgogliosi: di vita, d’amore, di passione. Il riappropriarsi e rivestirsi di una leggerezza che richiede uno sforzo apparentemente trasparente alle parole, invece della consistente ferocia presente in  ciascuna di esse, per precisione condensatissima, mai incerta, mai sopra le righe, e addolcita  anche quando è amara, o ironica. Anche se contenuta (o contenitore) di malinconia. Vedere il vuoto di là dal vuoto è una lotta costante, una sensazione di incompletezza e inadeguatezza, di essere a sproposito e come capitati, il fuori luogo di una non appartenenza che il cielo accomuna e pacifica, nell’immobilità calma del silenzio, della luce. Di suoni intuiti che provengono dal linguaggio misterioso di un altro silenzio, mentre l’immaginazione vaga nell’intorno delle immagini “verso il mare”, “a far notturna // la sera. A suonarmi le dita nelle tasche”. Dove i piaceri sono liquidi, fuggevoli, millimetrati, i passi trasparenti. Il piacere misurato, visto da occhio esterno, anche nelle libertà prese dall’andare fuori norma, da piccoli perché femmine, da grandi perché si è stati piccoli, anzi piccole, figlie femmine. Quasi a scusarsi, dunque misurarsi, con la propria femminilità di donna adulta poi e di corpo femmina che cambia, prima. In un mondo che ti guarda per criticare dal finestrino della macchina e dalle voci che si sovrappongono, con cui venire, e andare, a capo. Con cui ricomporre i fili dei rapporti più importanti, un percorso a pause, parole e silenzi per ritrovarsi interamente, ora che la mancanza è presenza che (si) fa sentire e dolore da carezzare, intimità d’aria e parole, di pioggia e nebbia, desiderio d’occhi.

Così avverto il suono delle parole sul Fare anima nelle composizioni che mi portano all’assenza tanto presente:

Fare anima significa, dunque, prendere la realtà pezzo per pezzo e ricondurla all’anima, ai regni di Ade, alla dimora delle ombre, alle profondità dell’eterno femmineo, ai reami dell’Io istintuale.

Fare anima vuole dire altresì saper evocare le ombre che abitano oltre la Grande Soglia e portarle in una zona ove ci sia possibile comunicare con esse: gli avi, gli archetipi, le immagini che popolano le profondità della nostra psiche, le ombre invisibili che determinano il nostro pensare e il nostro agire”.

Se, nel giorno che appartiene al fare, i gesti sono goffi, non colmi, “andati a male”; e “alle mal educate cose”, “la voce non ha stile”, e anche il corpo è una fusione d’arti, si tenta lo spazio del riordinare, ricomporre. Controcanto d’un’orgogliosa e bambina  indipendenza controcorrente, generatrice di scompigli familiari sulla “buona educazione” (e critiche benpensanti nelle osservazioni dei vicini), come ora a voler trovare un accordo di sicurezza, nel non sentirsi dentro quell’incompiutezza che viene da lontano. Ci si affida alle moltiplicazioni “senza il lusso della speranzella”, al riordinare e fare spazio, tutto ciò che la bambina evitava per parità con i fratelli, andandosene a giocare in soffitta: spazzare, aggiustare (m’aggiusto coserelle senza ambigiutà) lucidare. Si toccano le cose certe di quando sono quello che sembrano e le memorie, che nelle cose s’incontrano, raccolgono voci, ne fanno simboli. Allora a qualcosa ci si deve pure affidare, alla “nicotina”, alla luce, al farsi chiari, alla “ritmica andantina dell’unghia”, al ricostruire vivo, al silenzio lento che parla da un dentro, con parole di dentro, che fuori sono forme come tazze, cucchiaini, calendari, polpa del caffè; che fuori sono come forme, come carezze. La parola precisa, le sigarette, i rumori, l’occhio di chi guarda e sente, l’occhio che ritorna e l’occhio che non sa tornare, la paura di dimenticare,  la sicurezza, che completerebbe i confini del legame generazionale dei polsi. Definirsi Pitagorica è come allo stesso tempo farsi suono e disporsi sui lati, farsi scienza libera dall’errore, farsi tabella e formula matematica di certezze, come avvolgersi nel mistero indefinito al richiamo di un personaggio sfuggente alla storia, presentato addirittura come figlio del Dio Apollo, dall’immagine mitologica di divinità pagana in contrapposizione alla figura del Cristo. Infine, definirsi Pitagorica, è anche come, secondo ciò che scrive Porfirio:

« ciò che Pitagora diceva a quanti giungevano per ascoltarlo, non può essere formulato con certezza: in effetti, regnava tra loro un silenzio eccezionale. Tuttavia, i punti ammessi sono i seguenti: prima di tutto, che l’anima è immortale; inoltre, che essa trasmigra in altre specie di animali; inoltre, che in periodi determinati, ciò che è stato rinasce, che nulla è assolutamente nuovo; e che bisogna riconoscere la stessa specie a tutti gli esseri che ricevono la vita. In effetti sono questi, secondo la tradizione, le dottrine che Pitagora per primo introdusse in Grecia. » Considerando che, nel nostro caso, anche gli oggetti possono essere assimilati agli esseri animati.

Nella notte, che appartiene allo scrivere e al movimento della memoria, sono le millimetrature a consentire il toccarsi di questa presenza assenza.

Fare anima, in buona sostanza, significa fare in modo che tutto ciò che è al di qua e tutto ciò che è al di là della Grande Soglia si incontri in un confine che non ha collocazione né di tempo né di spazio”.

Nella notte, il Fare anima è sentire quel tanto amore filiale che (si) racconta, come parlare di voce che scuote o solleva, un soffio, il ruvido e il rigido, dolce ed esclusiva sensazione d’un legame vivo e presente.

La tenerezza di certi ricordi comunica ancora, come un padre che custodisce il presepe per anni e sempre lo prepara di notte. La bambina che racconta alla donna della carta velina, e quella donna a rivedere, tenerezza e critica nel ricordo, rivestirli d’amore, per ritrovarli cari, ricucirli.

Amore di presenza, come la “memoria scalza” che se di notte spostasse gli oggetti che si fanno vivi, li lascierebbe a cantare per il mattino, quando si prova almeno a “danzare”, e per la presenza aprire le finestre di luce dal vetro e il mare.  Posare i cucchiai delle “mal educate cose”, riordinare di voci e tutti i fiori del primo sole, come le zolle di un tempo che affiora. L’intimità di un istante vivo, al posto delle cose che col tempo si accumulano e le finestre vie di fuga, sommario del freddo dalla memoria, al posto di un ricordo che s’infuma nell’abitudine (“andantina”) e si perde nel buio  (“non vedo il tuo occhio”). Per questo nel buio si scrive, per riportare al “bianco rumore”,  riparare le interruzioni e le sottrazioni e le mancanze d’assenza, in andirivieni temporali, manipolazioni per riconoscere e non dimenticare, ricostruire, riappacificare, condividere tutto il possibile. E nella luce ci si fa aria e scintillii di bellezza. Con l’attenzione a un tempo che corre troppo, da una fretta che strappa. Allora si rallenta anche col silenzio, con pause complesse, con gli oggetti intorno.  Sembra la parola lasciata e tenuta stretta, a non aspettare risposta sempre al Fare anima di Jung:

“I nostri avi, dunque, sono dentro di noi, sono aspetti della nostra psiche, dialogare con gli avi è interrogare le profondità psichiche, è “fare anima”.

I nostri avi, in quanto rappresentanti dell’invisibile, ci mostrano ciò che è nascosto, segreto”.

Si insinua forte, la leggerezza disposta delle parole, del ritmo e degli spazi che si fanno piani in un’illusione di scorrevolezza allo sguardo superficiale. L’intensità custodita e quasi celata nel racconto, nell’immagine, nella punteggiatura, nel linguaggio, è una parola portatrice di un mondo e più vite, che forse somigliano alla vita di ciascuno, almeno per sensazione di silenzi tra i gesti, per ambiente casalingo e quotidiano, per dolori di vita che scorre, e coinvolge in una ricostruzione totale anche propria. Nel senso più ampio che può avere una parola come casa, come cosa che accoglie e poi muta al nostro silenzioso mutare, pelle e contenitore, spazio da riordinare o credenza vuota, oggetti che respirano la nostra aria, come il fumare memorie di ieri e i gesti goffi di oggi. Dialoghi lasciati a pendere e voci che ritornano a dire  e ridire. Le voci dei vicini, quelle immaginate, quelle sussurrate, quelle salutate, una porzione di solitudine da vestire e da scontare mentre tutto scorre alla velocità di lucertole, nei gesti e nelle azioni, nelle passioni.

Una costante sensazione di continuità e mancanza che smuove le gambe o la pancia,  dolori tenuti a bada dall’esperienza del tempo, che non sopisce nulla, ma insegna la condivisione, anche con chi non è più, del presente passante in pensieri che si fanno spazio, si fanno silenzio, e creano il proprio esistere comune.

Incerti Editori 2013, pp. 67

Martina Campi

Quaderno millimetrato – il sogno

Tenevo tra le mani “Quaderno Millimetrato” da qualche giorno, grazie a Giampaolo De Pietro, che me ne  aveva fatto dono.

Sognavo di essere nel mio letto a leggere il libro. Tutte le parole erano fuse insieme e poi quello che leggevo si trovava a vivere fuori dal letto: io ero là sdraiata col libro in mano e fuori dal letto -in un parco- dentro al libro (o dentro le parole che uscivano fuori dal libro) e vi cercavo ma voi non c’eravate-

c’era invece il mio gatto, Cesare, che era bianco bianco, ma nel sogno solo le zampe erano bianche, il resto del pelo era grigio. Ero felicissima fosse tornato da me anzi, sorpresa! Non se ne era mai andato, ero io che non lo vedevo pi. tutti quegli anni e lui era stato sempre con me senza che lo vedessi! E Mario mi diceva: alzati dai che dobbiamo andare; e io rispondevo: non posso, devo finire il libro di Dorinda!

Il colore della copertina era una delle cose più belle della stanza.

 

 

 

 

 

Quaderno Millimetrato – Dorinda Di prossimo

Incerti Editori 2012

 

 

Alcuni estratti

 

 

 

Al mattino l’occhio, le spalle perfino, sono

una cosa sola. La voce non ha stile,

il gesto non è colmo. Col chiarore, poi,

le mal educate cose. La tazza nel lavandino,

le foto, la rigida maniglia, il conto senza sconto,

i gesti andati a male. Stolti, incompiuti

M’aggiusto coserelle senza ambiguità,

al mattino. Due righe di luce rubate ai vetri,

quattro versi di pensieri (un viaggio, la cura

d’una fuga), la polpa del caffè. Mi faccio chiara,

senza il lusso della speranzella. Pitagorica,

direi. Una moltiplicazione di molliche di buona

educazione (parlati piano, Dorì, lavati gli occhi

di ieri, metti la linda parananza). Rinvio

il sommario del freddo, la tenacia d’una felicità.

Alla poetica sgrammaticatura, m’affido,

alla colletta della nicotina; bionda, sulla ritmica

unghia, andantina.

Alle cinque e quaranta del mattino cielo ancora

denso blu. Qualche mossa di vento fresco

entra, cova sulle tende a vetro del soggiorno.

Tende bianche con filo di merletto a smagliare

la luce, quando arriverà, sul divano buono,

i tappeti a prezzo minimo, gli attrezzi per il

camino. Neri, quasi lucidi a lato, sotto i poster

blu. Alle sei e zero due pause e rumori. Rumori

e silenzi assestati. Tra il balcone, la strada,

i sacchetti flosci della differenziata. La notte

non si risparmia. È settembre. Tutto s’accuccia,

per conclusione di foglia, per il grasso marrone

che si stria, si sdraia. Si fa il fieno, a settembre,

si sfrondano le viti. Sei e diciassette. Un po’ di

chiarore s’accosta. Ma non stringe i tetti.

È un piccolo colpo di luce confusa. Ché il

lampione ancora punta. I balconi, le scope,

le stelle dell’hotel, qualche sogno combaciante.

Sul cuscino, sul comò. Sui trastulli del ciccì e coccò.

Esco. Dopo questa sigaretta che mi cessa

in gola. A far pezzi di passi. Dal vicolo che porta

alla casa gialla. All’infrangibile aria delle finestre

incartate. Verso il mare. Vado. A far notturna

la sera. A suonarmi le dita nelle tasche. Aiuta

gli occhi una felicità inaddormentabile. Che nei

capelli sta. Come i primi viaggi alleggeriti. A far

spese di gocce per le labbra. Ribes sapore. O

sole speso a grani. Anche s’è buio. E virgola

un treno ripetuto. Da nord a qui. Per tratti.

Esclamativi.

Scrivo come tu sai. Portandomi a destra sinistra

del foglio, nella posizione intera della notte.

Indisturbata. Un poco a pungolare per fame.

Solo quell’appena di dispensa sguarnita

che esiste. Sta. Anche in una casa così bella.

Laterale al sole. Con le lettere in fila.

Per fatalità. Appunto da destra al bordo.

Finanche alle righe rimosse. Indestinate.

In tutto buio scrivo. Ti riporto al bianco rumore.

Una gran botta di suono. Rimedio qualche

chiazza di capelli. Stanno qui. Dentro il giornale

quotidiano. Cosa a veder cosa. In tranquilla

lontananza. Certo credo di sapere.

Non delle tue corse. Ma del tuo intorno,

delle affezioni. Zampette in punta. Io zoppico,

compiuta. Convinta che lucidar ringhiere sia

la destra del tuo occhio. La zolla grassa

per fermarsi. Anche così. I libri aprendo.

Le stoviglie in soffitta. Per farci spazio.

Per. Appuntamenti. Quasi per sempre.

Che poi il pavimento si chiude da sé.

Ti scrivo come uscita dalla pioggia. Lenta

nell’impiccio delle mani. Mi fracassa sui polsi

una leggerezza di pesi perduti. Di vestiti

accantonati alla rinfusa. Prima del viaggio

ho cucito appena due orli sulle giacche. Fagotto

per tutte le stagioni. Aria da respirare a gambi

sottili, nella piega senza confidenza. Ti lascio

un bacio. A far grano del dì

Restasse così il giorno. Due macchine quasi

per scherzo, tra un lampione e l’altro. La paura

di niente. Poiché niente accade. L’immobilità

delle rose tramortite in testa, potature

che giovano per allungare il cielo. Lo desidero

d’assempre il cielo. Me lo gioco come un buon

affare. Assi nella manica perdendo. L’asse.

Restasse così. Balcone senza inquilini

i pomeriggi di nicotina la fretta delle lucertole

nel calendario d’erba estiva. Parlano gli anni,

accasati, amorevolmente moribondi. Metto

fra un po’ trucco di gioielli, il brillante di mammà.

L’orlo fino al ginocchio. D’una seta speciale.

Che struscia, fra le cosce, tintinna, io so bene,

silenziosa.

È complessa una pausa. È un’onorificenza

alle labbra, all’immaginaria resa d’una tonsilla.

Per gola. Per feconda avarizia che risucchia

l’occorrente. E svillana la fretta. I fiocchi

che altrimenti sgualcirebbero. Non posso, certo,

ancora dire: – Scusate, ho visto

un’amministrevole consapevolezza,

camminarmi accanto, un applauso di passi, un

cesto di fortunate giaculatorie. – Qui c’è solo

un’architettura d’echi. Un imbarazzato orecchio

che si consegna alle mani. Poi, nel poi, le

benedizioni. Il piccolo inchino. Ai giorni

congiunti. Ai sì dei no. Alla cortese attenzione.

Al post scriptum. Forse a inverno. Una sera.

Sai, l’ultima parte del giorno, trascrivo. Ora ti so

in piccola cornice. Era una compagnia

disordinata il tuo sorriso, madre. Luogo minimo.

Transitorio. Ho difficoltà di mani a trascinarti

qui. Vive così poco l’erba a casa mia. I petali

restano nel bicchiere, la direzione degli occhi,

sui rovi cade. Qui ti vorrei, nome e indirizzo

precisi, equivoci a scansare. Diventa la morte

uno scompartimento d’addii. Una frolla

abitudine senza vita. E del tuo dolore in scena.

Sul divano, io. Te. Le spalle tagliate. Restando

Vince l’occhio dei lampioni. Nebbia viene

dal mare. Ci tenevo a dirtelo, madre.

Sta’ tranquilla. Quindi. Il vicolo ha sempre

una vernice chiara. I vicini, gentili, mani strette,

corto sorriso, sì. Ma’ è che io, io trillo d’un’aria

frettolosa, trasparenti passi. E dicono i vicini

(gli uomini, le nonne di vetro e di rosari, le dame

coi tacchi per serate) – quella donna è troppo

spettinata. Disordina i saluti, inversi orecchini

porta, tosse, acquatiche respirazioni. Legge

copioni in macchina, dimentica la spesa per le

scale. E ha figli grandi come amanti – .O. amanti

rumorosi come figli. Rema d’amore. Eppure

ancora vedo col tuo occhio, madre. A pugno

stringo grano di preghiera. Sale butto, palma

benedetta. Così e Quando. Di croci un

temporale. Il collo, liquidi piaceri, giostre

per bambini. Fuggevoli. Millimetrati.

Ti dico madre che nell’infermità del ricordo,

a volte, perdo il debito dei tuoi occhi. Mi fido

della brusca prontezza dei miei. Stiro riscaldo

le ciglia, faccio nottate d’espressioni, finché

riappari. Quadro pensiero. Quasi del tutto viva.

Gelosa nei capelli, la bocca che pinza smorfie.

Ma non mi arriva in pancia la tua voce.

Le sillabe dei sillabari dolorosi. La tua punta

eterna di rondine che non vola. Mi pronunciavi

tintinnosa, m’accentavi d’ago fino. E mi voltavo

indietro, ogni volta ripassavo la giaculatoria che

ti perdonava. Non m’ero vestita che di nastri e

sangue per pulirti la bocca, le gambe di fontana

senza fiotti. Sapevo, riconoscevo tutte le ostie

che t’ingoiavi dentro quel segno che mi

comprava, ginocchia, spalle, caviglie. Così

t’ancoravi a una postura illuminata. Così so

perché nel mio paese di pelle e corda

improvvisate, tu mi t’inchiodi nei vasi, a notte.

Nel cranio dei limoni, nella plastica sopra i

divani.

Lo faceva di notte il presepio, mio padre.

Respirando dietro le porte chiuse. Il nostro

sonno fingendo. Il fiato che condensava sulle

ingenue stradine di farina, lo specchietto rotto

per un laghetto solitario, il gioco del muschio

attorno. I pastori con la stessa, nuda

espressione degli angeli. Una donna con

brocca sulla spalla, un arrotino, un cammello

che con gli anni perdeva colore. Hanno

viaggiato con tutta la famiglia i pupi del

presepe. Per ben sei traslochi. La carta blu

stellata piegata con rigore, le casette negli

scatoloni. La madonna, san Giuseppe,

il bambinello, nelle borse di mammà.

Con la carta velina. Docili a custodire

Schiudiamo il silenzio. Quel piccolo bilico

che lava i rumori. Apriamolo, riapriamolo.

Col pollice e l’indice, le vene rivolte al cielo,

le ciglia sul mento. Sì. Riconvertiamoci all’insù

della pausa, spuntiamo i rulli o il rullio.

Stacchiamo tutte le vocali, così ingombranti

con quella gola che sciabola le soglie.

Accantucciamoci dentro una balena, solo

le orecchie dritte, come fanno i cani, dilatiamoci

muti. Somministriamoci una pelle che traccia

solo il segno del pensiero, riempiamo le

distanze tra il mignolo e il purissimo odore di ciò

che accade. Eccoli, i picciòli delle foglie, i cerchi

del polline e del fiore, il passo del verso del

dolore, le gioie a soqquadro tra i ventricoli e

l’ombelico. Sillabiamo nei follicoli i ricordi,

dentro le unghie; ritroviamoci nelle viscere.

Il silenzio è rispetto, il vin santo dell’esclamazione.

Specchiamoci dentro di esso, senza timore.

Così, quando arrivano i figli del dolore, dentro le

bare, dentro le fusa della falsa guerra, stolto

sentiamo l’applauso, quel batter di mani stonato.

La morte è morte, uno spiazzo di sale, cenere

sui capelli disossati. Portiamole rispetto. Ché i

nomi diventano lievi, le madri, ghiaia d’agonia.

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