Propagazione d’onda
In mezzo alla notte
come mare aperto
rinviare il chiarore
per un tempo a venire
il vecchio timoniere
se n’è andato a riposare
siamo rimasti solo noi
oggetti silenziosi
in balìa dell’alba.
—
Presto, a quest’ora,
è un modo di temere
la luce
quell’ignoto steso al sole
anche nella nebbia
di novembre.
—
Ho seguito la lepre verde
che è arrivata saltellando
al mio prato e aveva in bocca
due libri: John Ashbery uno,
l’altro bianco, non avrei saputo.
L’ho seguita come fosse stata
la mia buona siepe, la moltitudine bianca
e mi ricordava Le onde
ma arrivati ai rami, erano tutte parole
zolle da riordinare, timori tra le fronde.
—
(E non è ottimismo credimi)
gdp
Così con queste aritmetiche in corso
se respirare o meno l’aria di oggi,
ogni nuvola che passa è una mano.
Se smettere davvero di respirare.
Lasciarsi dimenticare come oggetti smarriti
dalle persone più care, lentamente
come uno sconoscersi delle spugne
nell’acqua d’altre vite, per indivisi tempi.
Respirare è credere d’amare
e noi siamo sopra un prato
che si bagna e si secca a orari precisi
dei nostri disagi non necessari.
—
Ai pesci che hanno chiesto
l’acqua è stata portata un’onda
e le branchie sbattevano schiuma
a chiamare rinforzi in un silenzio
che sgorga, si dimena o sporge
sorrisi contenuti in un galleggiare
senza tregua, provando a dirsi
è solo il respiro.
—
Eravamo luce di corvo
in volo: la vista sfuoca
la distanza in gocce
che ci separa
e la mancanza
che fa sentire
se pare un volo nero
a svanire.
—
Quel bussare era ieri
un cuore fantasma
sperduto senza memoria
cosa potremmo dire
che non sia verità
è il vuoto che si prende le stanze
e ogni parola dagli scaffali.
—
È il cuore metaforico
raffreddato ostruito
tubo di plastica trasparente
che non riesce a mangiare
e non è mai sazio.
Ho provato a spiegargli
che era giusto per dire
era solo per finta
ma lui mi ha rotto
una vena nel braccio
e si è girato dall’altra parte.
Ubriaco come un demonio
non aveva più casa.
—
la parola s’inceppa
affar di pensiero pastoso
e non di lingua impastata
dire e mettere alla luce
del soggiorno aperto
il sentirsi vicini
vicini
a rischiare tutto
per un contatto
Il corpo lo sa
e brucia lontano*
dammi la mano o
dammi il tuo sangue
è il corpo che brucia
un
piccolissimo
istante
è la luce del corpo
sfrigolante lontano
che rischia tutto
che brucia lontano.
—
l’ossessione delle immagini
i muscoli spigoli
sensazioni tattili
ingannevoli
intrusioni nel tempo
persistente
tubulo arrotolato
del perdersi pensiero
e non carne
domande
e non carne
alla geometria indisturbata
del volto e del resto
del corpo parabola
presenza e attesa
atroce di un (non) sentirsi
insolente spiazzante
prossimità feroce
del tenersi vicini
allargare il confine
la pressione sanguigna
attesa immensa
di ”indivisibili tragitti”**
dove non siamo mai stati.
—
le parole s’accumulano
sul ghiaione del Pordoi
con la fatica dell’ascesa
di non franare
pregare in silenzio
-si perderebbe stabilità-
di non rovinare
ma poi a valle
c’era tutto un prato.
Ora che salire
non avvicina al cielo
accumularsi così a pezzetti
di silenzio ripido
è quasi desiderio
d’essere friabili
pietruzze antiche
a decostruire
la montagna.
—
Il frammento detrito
del minuto corrente
si regge al soffitto
dal fondo smaltato,
o perduto pulviscolo
al vento
che lascia denutrito
il senso svuotato
del ricorrente ritorno
al riconoscersi
contatto o disagio
la stretta sulla soglia
la sola che possa restare
intatta rivendicare
il corpo rivendicare
la mano arrestare
la cancrena.
—
Anche l’assenza
ha le sue regole
ma non si conoscono mai prima
così c’è questo da imparare
da dove prendere il calore
o solo quello che può durare.
(il corpo brucia lontano)***
*Giuseppe Conte
**Emilio Villa
***Jason Molina